Mentre cresce in tutta Italia il dibattito sui voucher, Coldiretti Toscana sottolinea come questi buoni lavoro, introdotti in via sperimentale per la vendemmia 2008 e poi diffusi in tutte le tipologie di attività, hanno perso radicalmente la loro connotazione agricola.

A conferma di questa affermazione i dati forniti dall'Inps regionale che riportano oltre 10 milioni di voucher venduti in Toscana nel 2016, un incremento notevole visto che nel 2015 ne erano stati venduti non più di 8 milioni.

Ma solo una piccola parte è stata usata in agricoltura. Infatti solo 143.392 voucher, che rappresentano appena l'1,3% del totale, sono stati acquistati da aziende agricole toscane lo scorso anno.

Una cifra che mostra anche una diminuzione rispetto al 2015, quando le imprese agricole regionali ne utilizzarono circa 168mila.

In agricoltura, come spiega il presidente della Coldiretti Toscana Tulio Marcelli, i voucher continuano ad essere utilizzati per lo scopo per cui sono nati, cioè per remunerare un lavoro accessorio ed occasionale, di alcune figure particolari come studenti e pensionati, per alcune operazioni specifiche come la raccolta delle uve o delle olive. 

In effetti il maggior numero dei buoni lavoro sono stati venduti nelle province a forte vocazione vitivinicola, con in testa Siena, seguita da Firenze e da Arezzo.

Uno strumento utile per remunerare prestazioni occasionali, come ha affermato Antonio De Concilio, direttore della Coldiretti regionale, che può portare alla luce lavoro che diversamente sarebbe rimasto nelle maglie del sommerso.

Ed è per questo che Coldiretti si augura che il lavoro di revisione della norma, ritenuto giusto ed opportuno, diventi un'occasione per fare chiarezza e colpire l'utilizzo distorto senza però far venir meno questo strumento.

Tra le novità introdotte a suo tempo dal decreto correttivo del Jobs act, per l'utilizzo dei voucher in agricoltura è previsto da una parte l'obbligo di comunicazione anticipata, limitato ai soli tre giorni successivi di prestazione, che comporta anche un non indifferente aggravio burocratico, e dall'altra una limitazione economica con un tetto di 2.020 euro per ogni azienda.

Per De Concilio servono pene severe e rigorosi controlli che colpiscano il vero lavoro nero e lo sfruttamento, portando alla luce quelle sacche di sommerso che peraltro fanno concorrenza sleale alle imprese regolari che hanno intrapreso percorsi di legalità e trasparenza.

E' necessaria però anche una grande azione di responsabilizzazione di tutta filiera, dal campo alla tavola, per garantire che dietro tutti gli alimenti, italiani e stranieri, ci sia un percorso di qualità che riguarda l'ambiente, la salute e il lavoro, con una equa distribuzione del valore perché, come conclude il direttore regionale "non è possibile che cinque chili di grano valgono come un caffè".