I numeri parlano chiaro. Se nel 2009 l'Unione europea importava dai paesi meno avanzati (Pma) 30mila tonnellate di riso, oggi ne arrivano 300mila. Un danno enorme per i risicoltori europei che lo scorso 21 febbraio si sono incontrati a Milano per quello che è stato definito dagli stessi organizzatori il G7 del riso.
Presenti le delegazioni di Italia, Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, Ungheria e Bulgaria.

Nel mirino dei risicoltori e trasformatori europei, raccolti a Milano dall'Ente nazionale risi, promotore dell'iniziativa, c'è la decisione europea, entrata in vigore nel 2009, di eliminare tutti i dazi all'import di riso dai cosiddetti paesi meno avanzati tra cui la Cambogia e il Myanmar. L'eliminazione dei dazi ha causato una vera e propria invasione di riso estero che sta mettendo in seria difficoltà gli agricoltori europei e soprattutto italiani, primi per volumi prodotti.

Oggi l'Ue consuma circa 3 milioni di tonnellate di riso all'anno. Se fino al 2009 i due terzi erano prodotti nel vecchio continente, oggi la metà arriva dall'estero. Di questi i due terzi sono senza dazi (come i 221 euro a tonnellata che si pagano per esportare il risone).
A rimetterci sono soprattutto le aziende italiane, prime produttrici in Europa di riso. Il giro d'affari per lo Stivale si aggira attorno al miliardo di euro grazie a 4.265 aziende agricole e 100 industrie risiere che coltivano e lavorano il riso prodotto su 234mila ettari situati soprattutto tra Piemonte e Lombardia.

"I nostri produttori sono in grossa difficoltà e rischiano di chiudere", spiega ad AgroNotizie Paolo Carrà, presidente dell'Ente nazionale risi.
"I bassi costi di produzione dei paesi asiatici stanno buttando fuori dal mercato le nostre imprese. Per questo chiediamo all'Unione europea di rivedere la clausola di salvaguardia".


Al momento della stipula dell'accordo con i paesi Pma l'Unione europea si è infatti riservata di bloccare l'import a dazio zero nel caso in cui le importazioni mettessero a rischio le imprese europee. Ma la normativa, per come è stata interpretata a Bruxelles, prevede l'attivazione della clausola solo quando per gli agricoltori europei non c'è alternativa se non chiudere i battenti.

"Non è la prima volta che noi chiediamo al ministro Martina di intervenire in Europa per modificare la clausola" ricorda Carrá. "Oggi può andare a Bruxelles in sede di Consiglio Agricoltura con il sostegno non solo dei produttori italiani, ma anche di quelli degli altri paesi europei".

Durante il G7 di Milano infatti i rappresentanti dei produttori e dei trasformatori hanno firmato un documento con alcune richieste da avanzare ai governi nazionali e al Consiglio Ue. Prima di tutto la revisione della clausola di salvaguardia, ma anche la fissazione di regole reciproche tra gli Stati Ue e i paesi terzi, sia in ambito fitosanitario sia in ambito commerciale.
"Se in Europa la Commissione impone limiti stringenti sull'uso degli agrofarmaci come il triciclazolo, è giusto che tali limiti siano imposti anche ai produttori esteri" chiede Giuseppe Ferraris, presidente del gruppo di lavoro Riso al Copa-Cogeca.

Inoltre si chiede una campagna di promozione per comunicare al consumatore finale l'importanza di consumare riso prodotto in Europa, magari inserendo in etichetta l'origine. Già, perché la risicoltura non ha solo una valenza economica, ma anche culturale e ambientale.
"A Bruxelles non hanno una strategia alimentare volta a valorizzare le produzioni locali", spiega Salvador Loring, vicepresidente di Uniade (Associazione delle industrie risiere spagnole). "Il riso è parte della nostra storia, dalla paella in Spagna al risotto alla milanese in Italia. C'è poi una questione di salvaguardia del territorio. La risicoltura svolge un ruolo importante nella gestione delle acque e nelle aree costiere aiuta a scongiurare la salinizzazione del terreno rendendo possibili anche le altre colture".

L'import di riso Indica dal Sud-Est asiatico ha portato ad una contrazione delle superfici coltivate con queste varietà in Europa e un aumento di quelle destinate alla Japonica. Il paradosso è che negli anni Ottanta era stata la stessa Commissione Ue a spingere per l'aumento della coltivazione di Indica per ridurre lo squilibrio nella bilancia commerciale.
Oggi invece, a causa dell'import dai Pma, la superficie a riso Indica è crollata del 40% (da 75mila ettari a 33mila in tre anni), mentre quella dedicata alla Japonica è aumentata del 14% generando uno squilibrio di mercato.

Ad oggi molti risicoltori lavorano in perdita a causa dell'abbassamento dei prezzi dovuto all'invasione del riso asiatico. "L'anno scorso il riso Lungo A era quotato a 400 euro a tonnellata, oggi siamo arrivati a 280 euro", denuncia Ferraris.
"Per le nostre imprese agricole non c'è rimasto molto tempo soprattutto se guardiamo all'invenduto. Al primo settembre 2017 avremo in stock 580mila tonnellate a cui si andrà ad aggiungere la nuova produzione".

La beffa è che a beneficiare di questa situazione non sono i coltivatori cambogiani né i consumatori europei. La stampa asiatica ha svelato infatti come il prezzo pagato agli agricoltori sia sostanzialmente rimasto invariato, mentre a lucrare sull'import sono le grandi multinazionali e le industrie del Nord Europa. Società che si approvvigionano di materie prime in Estremo Oriente vendendo poi il prodotto nell'Unione allo stesso prezzo di quello prodotto in loco, ottenendo un profitto maggiore.