Et voilà, gli Usa sono fuori dal Tpp, quella Trans pacific partnership che da candidato alla Casa Bianca Donald Trump aveva avversato. Era uno dei pochi punti in comune forse con Hillary Clinton, quello di opporsi agli accordi internazionali di libero scambio.

E così, oggi nello Studio Ovale Trump ha un memorandum che ritira formalmente Washington dal Tpp asiatico che, invero, non era ancora in vigore in quanto non ancora ratificato dal Senato americano. Nella stessa giornata il tycoon newyorkese ha avviato le prime mosse per rinegoziare il Nafta, il trattato nordamericano che lega gli Stati Uniti, il Canada e il Messico.

Promessa elettorale mantenuta, accompagnata dalla volontà di stringere un accordo bilaterale con Londra, passaggio che segnala un'inversione di rotta verso il protezionismo da parte di Washington. Il neopresidente eletto sta rafforzando la linea che ha scandito non solo la sua campagna elettorale, ma anche il suo insediamento al numero 1600 di Pennsylvania Avenue: America first e Maga, Make America great again.
Aiuti alle imprese che investono negli Stati Uniti e assumono cittadini americani, dazi alle stelle per le imprese americane che producono all'estero per importare negli States.

E così, tramonta definitivamente l'accordo commerciale firmato da Stati Uniti, Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam (sono fuori Cina e Corea del Sud). Questo non sarà certo piaciuto ai vertici dell'American farm bureau federation, che invece sosteneva la linea dell'intesa, convinta che una volta a regime il Tpp sarebbero derivati benefici al reddito netto in agricoltura di 4,4 miliardi di dollari l'anno, a fronte di un incremento dei volumi degli scambi agricoli fra Usa e area transpacifica di 5,3 miliardi di dollari l'anno.

Gli esperti di politica ed economia internazionale sostengono che la linea protezionista si declinerà con provvedimenti analoghi di uscita dai grandi blocchi negoziali. Ad esempio abbandonando il Ttip, l'accordo di libero scambio con l'Unione europea che avrebbe comportato qualche grattacapo ai produttori agricoli e dell'alimentare made in Eu in termini di quote di accesso e di protezione alle indicazioni geografiche, che gli Stati Uniti avrebbero voluto ridurre al minimo, se non addirittura azzerarle.

Proprio mentre l'Europa cerca disperatamente di trovare una rotta per la Politica agricola comune, sempre più assimilabile a una barca nel mare in tempesta e senza un timoniere esperto per uscire dalla procella, gli Usa potrebbero puntare a creare un mondo polarizzato sui paesi che, per unità e potenza economica e politica, rappresentano dei punti cardinali: gli Stati Uniti stessi, la Cina, la Russia e il Regno Unito come capofila del Commonwealth e di tutto il mondo anglosassone che non risponda agli ordini diretti di Washington D.C..

Piano energetico rivolto alla valorizzazione delle risorse nazionali. Il presidente Trump sul tema è stato netto: "L'energia è una parte essenziale della vita statunitense ed è un punto centrale dell'economia mondiale. L'amministrazione Trump si impegna in politiche energetiche che ridurranno i costi per i lavoratori statunitensi e per massimizzare l'uso delle risorse statunitensi, liberandoci dalla dipendenza dal petrolio straniero".
Creare occupazione e lavoro internamente, con la priorità ai lavoratori americani sembra essere una costante, anche nel settore energetico, dove l'attenzione a shale oil e shale gas del territorio, accompagnato da una politica di gestione dell'ambiente responsabile, permetterà di aumentare i salari (in particolare grazie all'eliminazione del Piano di azione per il clima e la Legge Acque degli Stati Uniti) di oltre 30 miliardi di dollari nei prossimi sette anni.

Meno vincoli sull'ambiente, tanto che gli Stati Uniti dovrebbero abbandonare le politiche mondiali sul clima, ma con l'obiettivo comunque di proteggere l'aria e l'acqua pulita, preservare gli ambienti naturali, le riserve e le risorse naturali.

Intanto è emersa qualche intervista di repertorio con il neo segretario dell'Agricoltura a Washington, l'ex governatore della Georgia, Sonny Perdue. "Dobbiamo fare in modo di vendere all'estero maggiormente", si sente nelle dichiarazioni di qualche anno fa.
Di certo il successore di Tom Vilsack si ritrova a fronteggiare una situazione meno rosea rispetto al passato, con l'utile netto dell'agricoltura a stelle e strisce diminuito dai 120 miliardi del 2013 ai 66,9 miliardi di dollari del 2016.

Le priorità sulle quali si focalizzerà in prima battuta Perdue dovrebbero riguardare il lattiero caseario e il cotone. Ma le materie di competenza sono sterminate e si va dal servizio forestale al servizio di salute animale e di ispezione vegetale, fino alle linee guida nell'ambito dell'alimentazione.

Il budget destinato all'agricoltura è molto ampio e si aggira intorno ai 155 miliardi di dollari, gestiti prevalentemente attraverso il Farm bill.