I cambiamenti climatici stanno mettendo a dura prova l'agricoltura mondiale. Piogge abbondanti seguite da periodi siccitosi e temperature ballerine rischiano di ridurre la produttività dei nostri campi. Per questo i ricercatori stanno lavorando per selezionare varietà in grado di adattarsi a situazioni ambientali sfavorevoli.
Grande interesse ha suscitato uno studio dell'Università di Pisa, condotto dal professor Lorenzo Guglielminetti, sulla Festuca arundinacea, una pianta erbacea in grado di sopportare condizioni estremamente limitanti andando 'in letargo' e per questo largamente usata nei tappeti erbosi.

Professore, quali sono le strategie messe in atto dalle piante per superare lunghi periodi di stress, come temperature rigide o assenza di acqua?
"Normalmente le piante arboree mettono da parte il nutrimento sotto forma di zuccheri nello stelo e nelle radici durante l'estate e con l'arrivo dell'autunno perdono le foglie e aspettano la primavera per riattivare il metabolismo. Ci sono poi le piante della 'resurrezione' che vivono in ambienti desertici. Sopravvivono disseccate per anni e al momento della pioggia riescono a completare il proprio ciclo biologico nel giro di pochissimo tempo".

Come si comporta invece la Festuca arundinacea?
"Abbiamo scoperto che è in grado di sopravvivere per più di un anno in completa assenza di risorse energetiche, ma con i tessuti idratati. Mette insomma assieme i due sistemi visti precedentemente. Lunghi periodi di inattività, come per le piante della resurrezione, ma in forma idratata, come le piante arboree".

Che test avete effettuato in laboratorio?
"Abbiamo fatto germinare la Festuca al buio. La pianta è cresciuta per circa 200 giorni fino ad esaurire il nutrimento presente nel seme e poi è entrata in una fase di letargo. Il tutto per una durata di 650 giorni. La pianta aspetta in stand-by il ritorno della luce e a quel punto attiva il processo di fotosintesi e torna a crescere".

Perché questa scoperta è importante?
"Perché abbiamo individuato una pianta che ha dei geni di resistenza agli stress incredibilmente forti. Questo può avere delle ricadute sul miglioramento genetico delle colture agrarie enormi nel momento in cui isoleremo i meccanismi di resistenza".

Ci può spiegare meglio?
"Per vivere qualunque pianta consuma energia. Nel momento in cui non è messa nelle condizioni di fare la fotosintesi brucia le riserve accumulate e se queste finiscono le cellule muoiono. Nel caso della Festuca invece subentra una fase di letargo. Se noi riuscissimo a trasferire questi meccanismi, che ancora non sono chiari, nelle colture agrarie saremmo in grado di rendere le piante più resistenti".

Che tipo di resistenza avrebbero?
"L'esperimento in laboratorio è stato fatto ad una temperatura di 4 gradi, in assenza di luce e in condizioni di stress idrico. Verrebbero dunque beneficiate tutte le colture che soffrono per il freddo e per l'assenza di acqua. In futuro potremo avere ad esempio piante di mais che consumano meno risorse idriche ed orticole che non temono le gelate primaverili".

Trasferire questi geni dalla Festuca ad altre colture agrarie determinerà la creazione di Ogm?
"Non è detto. Il metodo più veloce e preciso è sicuramente l'ingegneria genetica, che però in Italia è fortemente limitata. Ma ci sono anche altre vie. Una volta individuato un gene di resistenza nella Festuca è possibile andarlo a ricercare nelle varietà di una coltura agraria magari non valorizzate commercialmente".

Questi geni non sarebbero dunque una 'esclusiva' della Festuca?
"La Festuca è unica perché ha molti geni di resistenza diversi. Ma non è detto che uno di questi geni non sia presente anche in altre varietà. Facendo uno screening è possibile andarli a ricercare in altre piante e poi trasferirli attraverso incroci tradizionali. Se ad esempio si scoprisse che una varietà poco nota di cavolo, per fare un esempio, resiste bene al freddo perché ha dei geni di resistenza, sarà possibile trasferirli alla varietà commercialmente interessante".

Quanto tempo passerà prima di vedere questo miglioramento genetico in campo?
"Molto dipende dalle risorse che avremo a disposizione. Nel migliore dei casi in un anno o due si conoscerebbero i meccanismi di resistenza e dunque poi si potrebbe passare alla fase di trasferimento alle colture".  


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