Come doverosa premessa bisogna spiegare ai lettori che è un errore madornale interpretare i fatti americani riferendoli alla situazione italiana. Le nostre lenti non vanno bene per leggere la politica degli Stati Uniti.
Trump non è di destra o di sinistra rispetto alle logiche politiche dell’Italia, così come non lo è Obama. Lo sono in relazione agli schieramenti che stanno tutti nella logica americana.
Il tifo da stadio che si è scatenato in Italia durante tutta la campagna elettorale e chi sostiene oggi di essere un trumpiano ante-litteram non ha molto senso. Sono discorsi sbagliati. Purtroppo abbiamo il maledetto vizio di interpretare i fatti esteri in chiave italiana, ma la prima regola è non cadere nel tranello.

Caliamoci dunque nella politica americana. Dopo le elezioni si sono tutti stupiti che il primo incontro fra Trump e Obama è sia stato cordiale e all’insegna della collaborazione. Fa parte del fair play e della normale cortesia istituzionale. Vedremo come questo approccio sereno fra il presidente uscente e il neo presidente eletto si declinerà, a partire da questa fase di transizione. Non dimentichiamo, infatti, che l’insediamento ufficiale di Trump è programmato per il 20 gennaio prossimo a Washington.

Elezioni di rottura
Sono state certamente elezioni di rottura, non soltanto perché la campagna di avvicinamento è stata alquanto aspra nei toni, quanto perché i due candidati avevano contro l’establishment dei propri partiti, in tutto o in parte. Trump era inviso al Grand Old Party, per usare il termine col quale è conosciuto il partito Repubblicano, ma anche la Clinton aveva contro parte del partito. Lo stesso Obama non la amava, pur avendo fatto il suo dovere nel sostenerla. Sono logiche che noi italiani fatichiamo a capire. Il nostro vissuto è quello di Renzi che dice a Letta “Enrico stai sereno” o ai grandi abbandoni, come ad esempio quello tra Berlusconi e Bossi negli anni Novanta o, in tempi più recenti, tra Berlusconi e Alfano.
Trump era un outsider e parte della stampa faceva notare che, pur partendo come una macchietta nelle primarie, lui ha “asfaltato” tutti. È un fenomeno particolare, va visto come tale, ha fatto presa sull’elettorato.
Sicuramente interverrà sulla riforma sanitaria di Obama, che tutto il partito Repubblicano non vuole e che l’elettorato già non voleva, perché non dimentichiamo che nel secondo mandato Obama aveva perso entrambe le camere, tant’è che non è riuscito a firmare l’Accordo commerciale di libero scambio del Pacifico (Tpp).
Trans-Pacific Partnership, già. Che si fa, ora? Gli altri Paesi coinvolti nell’accordo l’anno scorso premevano perché lui lo ratificasse prima della scadenza.

I trattati internazionali di libero scambio
Sul piano dei trattati internazionali ci sono altre incognite. Trump ha detto che vuole abolire il Nafta, il Trattato di libero scambio nordamericano, non tanto per il fronte canadese, quanto per i rapporti con il Messico.
I grandi accordi sono una strada alternativa agli accordi multilaterali, come ad esempio era il Gatt-WTO. Se prendiamo appunto i negoziati in seno al WTO, vediamo chiaramente che si erano arenati sulle stesse tematiche sulle quali anche oggi vi sono difficoltà di intesa. Non parlo di agricoltura, che è solo un alibi per non affrontare questioni ben più rilevanti, legate alla circolazione finanziaria, alle assicurazioni, ai diritti di proprietà intellettuale e ai diritti del lavoro. Era il famoso Pacchetto di Singapore, che in realtà al Gatt non è mai passato, e che aveva compattato lo schieramento dei paesi più avanzati, come il Nordamerica, l’Europa, il Giappone.
Oggi Trump eredita un’America che, fra i tanti errori fatti dalla politica di Obama, aveva in realtà giocato molto bene la politica dei trattati che coinvolgevano vaste aree. L’hanno giocata così bene che i trattati in discussione nell’area del Pacifico erano due: il Tpp, che coinvolge 12 Paesi (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam; non la Cina), e il Recp (Network for Resource efficient and cleaner production), che è un programma delle Nazioni Unite rivolto anche all’area del Pacifico.
Gli Usa hanno preferito concludere per primo il Tpp, accelerando le trattative l’anno scorso, senza la Cina, ma con l’intento di schierare un fronte in cui ci fosse un dialogo fra importanti economie. In questa direzione era stata interessata anche la Corea del Sud.
Perché questa premura? Perché la logica degli accordi è duplice. Una è quella di favorire l’incremento degli scambi, riducendo le barriere di ogni genere. L’altra è quella nascosta, ma tatticamente molto importante. Che cosa prevedeva il Tpp? Tenendo conto che eventuali trattati successivi inevitabilmente devono ripartire da quello che è stato concordato negli accordi precedenti, questo è il punto chiave sul piano tattico. Il Trans Pacific Partnership sarebbe stato dunque funzionale al Ttip, l’accordo di libero scambio fra Usa e Unione europea. Era sostanzialmente una sorta di minaccia verso l’Europa, perché Tpp e Ttip riguardano ciascuno un po’ di più del 40% del Pil mondiale. E aver codificato certe regole costringe l’Europa a tenerne conto. O meglio, dovrei dire avrebbe costretto, perché il Tpp non è ancora stato ratificato dal Congresso americano e le fasi negoziali per il Ttip sono state momentaneamente sospese. Comunque, nei round diplomatici l’Unione europea non poteva e non potrà avanzare proposte in contrasto con il Ceta (fra Ue e Canada) o con il Giappone.
Bisogna anche riconoscere che nel Ceta l’Unione europea ha dovuto concedere molto e alcune Dop italiane, anche di un certo peso, non sono entrate, come Fontina e Gorgonzola.
Se un domani ci fosse una ripresa del multilateralismo e dei trattati Gatt-WTO, una conseguenza sarebbe l’estensione della cosiddetta clausola della nazione più favorita e quanto avvenuto nel trattato fra Stati Uniti e Pacifico estenderà de facto le stesse clausole a tutti i paesi, come è accaduto col Gatt. Avremo una situazione in cui sarà strategico cercare di sottoscrivere accordi di area, in modo da anticipare quanto accadrà in futuro.

Nessuna chiusura dell’America
Per questi motivi ritengo che, nonostante forse Trump continuerà a dichiararsi contrario agli accordi internazionali di libero scambio, con ogni probabilità dovrà concretizzare negoziati di libero scambio con le diverse aree del pianeta. Quanto al Ttip fra Unione europea e Stati Uniti sono convinto che l’Ue sia disposta a cedere alcune posizioni pur di arrivare all’intesa, in quanto un abbassamento delle barriere doganali favorirebbe la crescita dell’export e dunque il Pil europeo, che oggi è sostanzialmente fermo.
Vi è un altro fattore che spinge a credere che Trump non si chiuderà. Il tycoon ha vinto dove la crisi si è fatta sentire in più, come in Pennsylvania o nella Rust Belt, la cintura industriale, aspetto che teoricamente fa propendere per l’ipotesi che non vi sarà alcuna chiusura degli Usa, nessun ripiegamento verso l’interno. Anzi, proprio il magnate ha detto che l’America deve ritornare ad essere il più grande Paese del mondo.

Il Ttip
Non sarei preoccupato di una chiusura. Ancora meno lo sono per la parte agricola dell’accordo di libero scambio fra Stati Uniti e Unione europea. Secondo alcune stime fatte per conto del Parlamento europeo da professori universitari e analisti indipendenti, il peso della materia agricola negli scambi commerciali Ue-Usa è meno del 6 per cento e l’accordo non influirà molto sul nostro settore primario, nonostante tutti noi siamo molto interessati. Potrebbe avere conseguenze di poco maggiori sul futuro dell’agroalimentare Usa.
Per l’Ue portare a termine il negoziato interessa perché permette di abbassare i dazi doganali e di agire sulle barriere non tariffarie, che sono quelle fitosanitarie e quelle relative alle indicazioni geografiche.
Con gli errori commessi dagli analisti diventa arduo fare previsioni, però ad oggi tengo lo stesso atteggiamento che ho avuto sulla Brexit: ritenevo che non sarebbero usciti immediatamente e che, pertanto, non sarebbe cambiato alcunché subito. È chiaro che il primo ministro Theresa May punta a ufficializzare la trattativa di uscita a fine 2017, per poi - con i due anni di confronto necessari per affrontare tutti gli aspetti – dilatare i tempi della Brexit a una data non precedente al 2020, senza dunque conseguenze di bilancio oltre il 2020.
Allo stesso modo Trump ha interesse di continuare la tattica sapiente di portare a una sorta di scontro “Atlantico contro Pacifico”. Questo per il semplice motivo che mette al centro di tutto gli Stati Uniti, con l’opportunità di trarre benefici da entrambe le parti.

Il futuro delle Dop
Quanto al sistema delle denominazioni d’origine, credo che l’Italia debba superare il provincialismo che troppo spesso la caratterizza e avere una visione mondiale sia della politica che dell’economia. Lo scorso aprile la Commissione europea aveva avanzato una proposta negoziale in cui le Dop proposte per la tutela si fermassero a una quarantina: le più importanti, che di fatto coprivano oltre il 90% dell’export agroalimentare italiano dei prodotti riconosciuti.
Per sintetizzare, non sarei così preoccupato dalle dichiarazioni fatte da Donald Trump in campagna elettorale, proprio perché volutamente o necessariamente aggressive, spinte dalla necessità di erodere quella parte dell’elettorato democratico che non era del tutto convinto dalla candidatura di Hillary Clinton.
Pensare all’interesse degli Stati Uniti significa, col fallimento della dottrina Monroe (con la quale comunemente si stabilisce l’inizio della volontà dell’isolazionismo americano e la rivendicazione dell’egemonia Usa nel continente americano), instaurare relazioni commerciali aperte e non chiudersi al mondo.

L’agricoltura accantonata
Nelle fasi di avvicinamento al voto dello scorso 9 novembre bisogna prendere atto che l’agricoltura è stata un po’ dimenticata, perché al centro hanno posto le questioni più centrali per metabolizzare i danni della crisi economica e il comparto primario non è fra questi. Osservando lo scenario attuale, gli Usa sono leggermente più avanti di noi, ma la ripresa è debole anche da loro e la macchina americana ha bisogno di girare ad un alto numero di giri-motore. La loro economia, d’altronde, trascina il mondo.
Fatte queste puntualizzazioni, mi definirei attendista, certo, ma anche prudentemente possibilista. Non mi preoccuperei più di tanto. E probabilmente di là avremo un’economia molto coordinata e stretta, mentre in Europa, per l’assenza di potere politico, la realtà sarà più penalizzata. Per cui, vedrei che cosa accade nei primi 40 giorni, prima di sbilanciarci eccessivamente in previsioni che potrebbero rivelarsi errate, non fosse anche perché siamo spinti a ragionare con gli schemi italiani o europei ed è un errore. Lo stesso, peraltro, che ha commesso il presidente uscente quando ha imposto l’Obamacare. Agli americani il servizio sanitario nazionale non interessava; Obama invece è stato molto europeo nell’approccio al welfare, ma in un contesto che non era appunto quello comunitario.

I cambiamenti climatici
C’è anche chi ha storto il naso per le dichiarazioni di Trump sui cambiamenti climatici, di fatto negazioniste. Non ho la competenza scientifica, ma se si guarda alle oscillazioni climatiche appare chiaro che esse hanno periodi molto lunghi e sono testimoniate da quando gli uomini hanno scritto. Se ci concentriamo da Medioevo in avanti, non possiamo non ricordare che nel XIII secolo Chaucer ricorda come i frati producessero il vino in Inghilterra, così come è doveroso citare la mini-glaciazione del Seicento. Per non parlare del clima all’epoca della rivoluzione industriale a Londra: era molto peggio della Cina di adesso. Il peso dell’uomo, tuttavia, secondo molti, ed io fra loro, non è determinante. Personalmente ho molti dubbi che il fenomeno del cambiamento climatico sia provocato dall’uomo. Se vogliamo vedere un dato positivo, secondo le ricerche più recenti possiamo affermare che le piante oggi stanno assorbendo più CO2, avendone a disposizione di più rispetto al passato.
Bisogna inoltre riflettere su un aspetto tutt’altro che secondario. Possiamo noi occidentali, compresi gli americani, noi europei in testa, imporre a India e Cina di frenare lo sviluppo delle loro economie? Non credo ne abbiamo il diritto.

Auguri e suggerimenti (non richiesti) a Trump
L’augurio che rivolgo a Trump è che gestisca l’agricoltura con una tendenza meno salottiera di quella attuale, mettendo a punto politiche di stimolo della ricerca, per lo sviluppo del progresso tecnico da introdurre nel settore primario. Credo che sia una ricetta che non sbaglia mai.
L’auspicio è che Trump riesca a mettere in piedi un’equipe di gente in gamba. I collaboratori, Ronald Reagan ce lo ha insegnato molto bene, sono molto importanti, perché è soprattutto da loro che scaturiscono le soluzioni per tradurre le idee in opportunità per il Paese.