Coltivare l'orto è un passatempo per molti italiani. Chi abita in campagna non ha problemi a trovare un fazzoletto di terra in cui piantare pomodori, insalata e carote. Per chi vive nelle grandi città è un po' più complicato.
Ma se in passato i pensionati si appropriavano di terreni abbandonati nelle zone periferiche, oggi i comuni offrono terreni recintati a canoni simbolici.
Il pensionato che occupa il tempo annaffiando la sua rucola o il manager che strappa le erbacce per distendere i nervi forse non lo sanno, ma fanno parte di un movimento globale che promette di cambiare il volto delle nostre città.

Si chiama urban farming, coltivare cioè piante ad uso alimentare all'interno del tessuto urbano. Piccoli orti, ma non solo. Anche roof garden (i giardini sui tetti), green wall (pareti verdi) e impianti indoor (aeroponici, acquaponici o idroponici). Insomma, tutto ciò che permette a chi vive tra il cemento di avere verdura e frutta fresca a portata di mano.

Può sembrare una realtà marginale, ma non lo è. L'urban farming viene praticato nei paesi poveri come modello per garantire l'accesso al cibo. Basta pensare che nel 2002 il 90% dei prodotti freschi mangiati dai cittadini de L'Avana provenivano da orti urbani.
Se in questi paesi lo scopo è la sussistenza alimentare, in Occidente gli obbiettivi sono "la creazione di reti sociali, la riduzione degli spostamenti dei prodotti agricoli, il miglioramento del microclima della città e l'efficienza energetica degli edifici", spiega ad AgroNotizie Francesco Orsini, ricercatore dell'Università degli studi di Bologna, che a Venezia ha partecipato ad un convegno sul tema della 'smart agricolture' nell'ambito dell'International inventors exhibition,

Dunque le città del futuro saranno giardini verdi in cui i cittadini si coltiveranno il cibo da soli?
"Tutto dipende dall'impegno delle amministrazioni pubbliche nell'agevolare questo modello. L'urban farming non riguarda solo il cibo, ma il tessuto sociale metropolitano e il suo ambiente. La creazione di spazi coltivabili agevola lo sviluppo di relazioni interpersonali. I tetti o le pareti verdi isolano gli edifici e trattengono le precipitazioni migliorando il microclima. Senza contare che il cibo non deve percorrere lunghe distanze per arrivare a destinazione".

Coltivare la terra è una professione e non ci si può improvvisare agricoltori da un giorno all'altro. E' auspicabile dunque che ogni cittadino si coltivi il balcone?
"Più che il singolo cittadino o il singolo balcone bisogna investire su aziende che coltivino spazi peri-urbani o magari i tetti delle case, costruendo delle serre, come avviene a New York. Non deve essere un fenomeno improvvisato, ma studiato e promosso dai municipi".

Coltivare ortaggi sul tetto di una casa in centro a Milano o a Roma non è pericoloso per la salute umana visti i livelli di inquinanti presenti nell'aria?
"Abbiamo svolto delle ricerche su questo punto e la risposta è stata negativa. Le produzioni cittadine non si discostano dai parametri di quelle rurali. Abbiamo fatto anche degli studi sui sistemi fuori-suolo che permettono di abbattere il rischio di inquinanti anche nelle aree a rischio, come le arterie stradali o ferroviarie".

Quale impatto ha l'urban famring sulla biodiversità?
"Ha un effetto positivo perché ricrea nel tessuto urbano un habitat per piante, insetti e uccelli".

Quali sono le città che hanno sviluppato di più il concetto di urban farming?
"Sicuramente i paesi del Nord Europa, ma anche città come New York o Shanghai, in cui il 50% del cibo consumato viene prodotto all'interno del tessuto urbano. In Italia direi che la municipalità più attenta è Bologna anche se Milano, con Expo2015, ha visto nascere realtà interessanti, che però poi non si sono concretizzate in nulla di duraturo dopo l'esposizione universale".