Quali effetti ha l'introduzione di un organismo geneticamente modificato all'interno di un ecosistema? A spiegarlo ad AgroNotizie è Salvatore Arpaia, del Centro ricerche Enea di Trisaia (Mt).

Professor Arpaia, che cos'è Amiga (Assessing and monitoring the impacts of genetically modified plants on agro-ecosystems)?
“Amiga è un progetto europeo con ventidue partner da quindici Paesi diversi che ha come obiettivo quello di mettere alla prova le linee guida per la valutazione degli impatti ambientali degli Ogm definite dall'Efsa (European food safety authority). Sono linee guida che risalgono al 2010, ma che nessuna società ha mai applicato perché de facto c'è una moratoria da parte della Commissione europea nel concedere nuove autorizzazioni alla coltivazione di Ogm”.

Quali varietà avete utilizzato per i vostri test?
“Abbiamo studiato l'unica pianta già autorizzata in Europa, il mais MON810, resistente alla piralide. E poi abbiamo coltivato una patata prodotta da un consorzio pubblico olandese, non ancora autorizzata al commercio, che è resistente alla peronospora. Ci tengo a sottolineare che i nostri studi non erano volti a stabilire la sicurezza di questi prodotti per l'uomo, ma solo gli impatti ambientali”.

Che cosa intende per 'impatto ambientale' di un Ogm?
“Sono le ripercussioni che l'introduzione di un nuovo organismo ha su un ecosistema. Bisogna ad esempio accertarsi che non ci siano impatti sulla biodiversità. Nelle linee guida dell'Efsa ci sono sette aree da valutare, tra cui appunto la biodiversità”.

Che tipi di risultati avete ottenuto da questo studio?
“Noi abbiamo di fatto testato i protocolli attuali che le imprese devono seguire per misurare l'impatto ambientale di un Ogm. Protocolli che servono poi per chiedere l'autorizzazione alla coltivazione. Abbiamo identificato i punti di forza e di debolezza di queste procedure e suggerito delle modifiche alla normativa”.

Ci può fare un esempio?
“Le compagnie tendono a fare i test per la sicurezza ambientale su organismi standard. Noi invece suggeriamo che vengano fatti su delle specie che abbiamo rilevato essere indicatori ambientali sensibili. Questo migliora la sicurezza di tutta la filiera. Ma i dati raccolti saranno utili anche per il futuro”.

In che senso?
“Abbiamo costituito il più grosso database al mondo di microrganismi del suolo per patata e mais. In futuro qualunque Ogm si vorrà testare lo potremo fare avendo dei valori di riferimento”.

Molte aziende lamentano un fardello burocratico eccessivo per richiedere un'autorizzazione, è così?
“L'iter burocratico è fatto di molti passaggi, tra cui le parti sperimentali, quelle che noi abbiamo testato. E i nostri indicatori ci dicono che non è così oneroso come le imprese dicono”.

Lei ha studiato da vicino gli Ogm, ritiene che siano pericolosi?
“Porsi la domanda se gli Ogm siano pericolosi o meno non è corretto. Bisogna andare a studiare caso per caso. Se ad esempio produciamo un vaccino per l'hiv tramite una pianta dobbiamo essere molto cauti e prendere tutte le precauzioni possibili, come usare una serra stagna. Se invece produco una pianta che ha al suo interno il gene di un'altra pianta, come la patata che abbiamo testato, possiamo stare più tranquilli. Fermo restando che per ogni nuovo organismo bisogna fare studi approfonditi su sicurezza per l'uomo e impatto ambientale”.

Vale la pena coltivarli, sia in termini economici che ambientali?
“Anche qui dipende caso per caso. Per coltivare il cotone vengono usate grandi quantità di pesticidi che creano problemi all'uomo e all'ambiente. Avere un cotone resistente a parassiti e malattie è vantaggioso. Nel mais sappiamo che ci sono problemi con le micotossine. Ma usare un Ogm resistente alla piralide in una zona scarsamente colpita da questo lepidottero ha poco senso”.

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