La globalizzazione è una grande opportunità, per tutti, specialmente i più deboli. No global e teorici antiliberisti salteranno dalla sedia a leggere questa affermazione, ma è così. Non lo dice la modesta penna che vi scrive, ma decine di ricerche, compreso un recente studio del 2014 fatto dalla Banca Mondiale. La ricerca dell'istituzione, organismo che fa parte della Nazioni Unite, parte da un presupposto fondamentale: un miliardo di persone dal 1990 ad oggi sono uscite dalla povertà, con ottime prospettive di crescita per almeno altri quindici anni.

La World Bank ha infatti misurato il fenomeno, prendendo come la soglia di 1,25 dollari al giorno, sotto il quale si è considerato in condizioni di povertà assoluta. Se nel 1990 oltre il 36% della popolazione mondiale versava in queste condizioni, nel 2011 la percentuale si era ridotta al 14,5%. In mezzo, ventuno anni di grandi cambiamenti, tra cui l'esplosione della globalizzazione e la crescita, talvolta selvaggia, di alcune realtà ora molto importanti, come i Bric. Termine coniato di Jim O'Neill, capo economista di Goldman Sachs a inizio anni 2000, i Bric (Brasile, Russia, India e Cina), in particolare il Dragone e la Tigre asiatica, hanno registrato tassi di crescita elevatissimi. Fattore cruciali l'alta disponibilità di manodopera e il basso costo ad essa legata, con conseguenti e continue delocalizzazioni industriali in questi paesi. In supporto alla globalizzazione c'è poi un'altra ricerca della Fondazione Hume,  la progressiva riduzione del divario fra paesi ricchi e paesi poveri.

Se infatti la disuguaglianza fra Nord e Sud del mondo ha raggiunto il suo apice a metà degli anni '90, dalla fine del secondo millennio in poi si è iniziata a intravedere un cambio totale di rotta. Su questo indicatore incide moltissimo la grande crescita economica di Cina e India, che da solo rappresentano praticamente un terzo della popolazione mondiale. Rimane difficile la situazione dell'Africa, anche se si inizia a vedere forse qualche spiraglio di luce in fondo a un tunnel lunghissimo.

E a noi cosa rimane della globalizzazione? Molti posti di lavoro in meno nelle fabbriche? Certamente sì, è innegabile, e se non lo ammettessimo mancheremmo di rispetto ai tanti operai che magari hanno visto chiudere il proprio stabilimento per effetto di una delocalizzazione decisa dalla propria azienda. Questo sì, ma forse c'è qualcosa sotto che ci rivela un'altra verità importante. Ciò nel fatto che la globalizzazione ci può far capire che la rotta dell'Italia deve puntare sull'agricoltura come una della basi fondamentali della propria economia. La globalizzazione stessa, con la crescita economica spaventosa dei Bric, ci ha mostrato mercati di consumo interni, come quelli asiatici, potenzialmente incredibili per il nostro Made in Italy. Bisogna sfruttare questa occasione, e l'Expo è certamente una vetrina fondamentale per il nostro settore agricolo.

La sfida, entro il 2050, è quella di sfamare non più 7 miliardi di persone, bensì 9, inquinando di meno e aumentando la produttività. E' una sfida che l'agricoltura, non solo italiana, deve vincere. Coldiretti, a margine dell'inagurazione dell'Expo, ha ricordato la funzione dell'imprenditore agricolo. “Non c'è Expo, non c'è cibo e non c'è vita senza il duro lavoro nelle campagne – sottolinea la nota – le immagini degli agricoltori italiani raccolte lungo tutta la penisola testimoniano il giusto orgoglio di una professione che ha la responsabilità di nutrire il mondo”.
“Gli agricoltori sono il motore dell'Expo ma manca un adeguato riconoscimento economico e sociale al lavoro nei campi”
, ha affermato il presidente nazionale di Coldiretti Roberto Moncalvo.