Si fa. Non si fa. Slitta. Non slitta. Il cosiddetto Greening ha tenuto tutti col fiato sospeso per mesi. Ma alla fine la strada è quella: con la riforma della Pac è stato previsto che in aggiunta al pagamento base verrà riconosciuto un ulteriore pagamento per ettaro a patto che le aziende si impegnino al rispetto di ben precise pratiche agricole a beneficio di clima e ambiente. Non sono cifre da poco, pensando che ogni Stato membro dovrà destinare il 30% della propria dotazione per il pagamento di queste misure: mantenere dei pascoli permanenti, diversificare le colture se si coltivano superfici maggiori di dieci ettari, e mantenere aree di interesse ecologico su almeno il 5% delle superfici coltivate a seminativi. Una percentuale che aumenterà al 7% dal 2019.
 
Encomiabile iniziativa, il Greening, ma che deve però fare i conti con un’agricoltura italiana sempre più inadeguata rispetto ai consumi interni. In poco più di vent’anni si sono infatti triplicati i pasti che gli italiani ricevono dall’estero, mentre l’autosufficienza alimentare sta calando continuamente, obbligando a crescenti importazioni, deprecabili da più punti di vista: in primo luogo, se si parla di tipico e di made in Italy, sarebbe meglio lo si facesse quando anche le materie prime sono state prodotte in Italia. In secondo luogo, la bilancia commerciale italiana patisce sempre più di esborsi monetari che vanno a finire ad agricoltori e allevatori stranieri anziché contribuire alla ricchezza agricola locale. Non aiutano nemmeno le superfici utilizzabili, visto che la Sau continua a diminuire e siamo ormai al di sotto della fatidica soglia dei 13 milioni di ettari. Quindi, che fare?
 
La risposta è “Produrre”, “Produrre”, “Produrre”. Da ogni metro quadro di terreno si devono cioè estrarre crescenti rese, soprattutto di alcune colture come mais e soia. Ma nemmeno il riso scherza, né le foraggere in genere, né gli ulivi (Xylella a parte). Anche ortaggi e frutta spesso arrivano dall’estero, facendo pensare che anche su questo fronte ci potrebbero essere margini di miglioramento della produttività italiana.
 
La genetica è senz’altro fondamentale, come pure lo è la gestione sempre più oculata della risorsa idrica. Basti pensare all’espansione degli usi dell’ala gocciolante nel mais. Servono però anche mezzi di difesa sempre più efficaci e fertilizzanti sempre più evoluti, capaci di apportare alle piante ogni nutriente di cui esse necessitino grazie a formulati bilanciati e completi.
Il tutto, ovviamente, nel rispetto dei trend ambientali intrapresi. In altre parole, l’uso di acqua, agrofarmaci e fertilizzanti non potrà più essere improntato alle quantità impiegate, bensì alle qualità intrinseche dei prodotti e alle rese che questi sono in grado di garantire.  
 
L’agricoltore è quindi avvertito: non dovrà lavorare di meno, dovrà lavorare di più e meglio. Magari anche spendendo qualcosa in più nella ricerca di soluzioni che più che imbrattare un po’ i campi apportino elementi nutrizionali di qualità, mezzi tecnici efficaci, usando magari macchinari a basso impatto ambientale.
 
I contributi, in fondo, servono proprio a sostenere questi investimenti in qualità. Quindi, che qualità sia.