Pauperrimus, sed magnum gaudium: poverissimo, ma felice come una Pasqua. Questa l’espressione che più si avvicina concettualmente alla tanto decantata “decrescita felice” di cui si parla da alcuni anni. O meglio, se ne riparla.
Prima infatti che giungessero i recenti slogan di comici improvvisatisi leader politici, come pure certi guru dell’agroalimentare d’élite che arringano folle plaudenti in fiere e convegni, altri avevano già testimoniato il malcontento popolare verso i tempi moderni. Perché agli occhi di certe persone, dalle caverne ai grattacieli, i tempi sembrano sempre troppo moderni e ciò che di brutto capita all’Uomo e al Pianeta è quindi sicuramente colpa di un’Umanità che ha fatto adirare qualche divinità permalosa, oppure la Natura stessa, divenuta oggi, all’inizio del Terzo Millenio, una sorta di nuova divinità per una fetta consistente della popolazione mondiale.
 
Può così lasciare basiti scoprire che già all’epoca dei fatti narrati dai Vangeli vi fossero lamentele su clima e isterilimento dei suoli, additati quali cause della scarsità di cibo. Lucio Giunio Moderato Columella, nel suo "De re rustica" scritto nella prima metà del I sec d.C., commentava infatti in tal modo:
 
Odo spesso la gente lamentarsi ora dell’attuale sterilità dei campi, ora dell’attuale inclemenza delle stagioni che ormai va danneggiando i frutti della terra. C’è chi poi vuol attenuare in certo modo queste lamentele con l’assegnare al fatto una ragione precisa e dice che, stanco e isterilito dalle eccessive produzioni del passato, il terreno non può più offrirci i suoi frutti come nel passato”.
 
Perché, a quanto pare, le nostalgie del passato erano già in voga quando di passato da ricordare ve n’era ancora davvero poco.
Un paio di secoli dopo, nel 211 d.C. venne il turno di Settimio Fiorente Tertulliano il quale, tramite il suo “De Anima”, lanciava così il proprio grido di dolore:
 
Siamo di peso al mondo, a stento ci bastano le risorse, e maggiori sono i bisogni, più alti sono i nostri lamenti, poiché la natura già non è in grado di sostenerci. In effetti le pestilenze, le carestie, le guerre e la rovina delle civiltà sono un giusto rimedio, uno sfoltimento del genere umano arrogante”.
 
L’augurio all’Umanità di essere decimata dalle conseguenze delle proprie colpe non è quindi prerogativa originale degli attuali veg-animalisti sedicenti antispecisti, i quali vedono nella scomparsa dell'Uomo l'unica soluzione alle ambasce del Pianeta.
 
In tempi molto più recenti, nel 1798, fu Thomas Malthus, economista inglese, a sollevare la questione del rapporto “cibo disponibile fratto bocche da sfamare”. Per Malthus, la crescita della popolazione era infatti geometrica, mentre quella della produzione di cibo era solo aritmetica. Facile pensare quindi che il collasso alimentare globale fosse dietro l’angolo.
Per tale ragione, Malthus propugnava un deciso controllo delle nascite, visto come unico mezzo per scongiurare tale disastro. E all’epoca vi era meno di un miliardo di Esseri Umani contro i sette abbondanti di oggi. 
In effetti, pur sbagliando i conti sulla progressione delle tecnologie agrarie, l’economista inglese qualche ragione pur ce l’aveva: una popolazione non può crescere all’infinito, perché se così fosse l’ecosistema in cui essa insiste finirebbe prima o poi col risultare insufficiente. Se quindi tutti si dessero una calmata nei talami coniugali, forse la si potrebbe anche smettere di inseguire con le nuove tecnologie agrarie quelle rinnovate esigenze alimentari che, con un po’ più di morigeratezza procreativa, non si sarebbero mai impennate.
 
Oggi, ça va sans dire, tale approccio viene riproposto in chiave moderna. Sempre che, appunto, di modernità si possa parlare quando si citi il suddetto approccio. Il futuro mette infatti da sempre inquietudine, quindi l’unica alternativa, per taluni, è voltarsi indietro e intraprendere a ritroso quei passi che ci avrebbero condotto sino all’attuale assetto del Mondo. Un Mondo ove dilaga virulento l’ormai famigerato grido “Moriremo tutti!”.
 
Sicuramente sarà così, nel lunghissimo periodo, a meno di divenire tutti immortali. Ma con buona pace delle molte Cassandre antiche e moderne l’Umanità si è invece sviluppata continuamente e ha sempre trovato nuovi modi per procurarsi il cibo.
Nonostante ciò, resta comunque un fatto inconfutabile: anche fermando la popolazione mondiale agli attuali sette miliardi, evento fortemente auspicabile, di persone che soffrono cronicamente la fame ve ne sarebbero ancora quasi 900 milioni. Quindi, di cibo bisognerebbe produrne comunque di più e meglio. E andrebbe prodotto là dove sta la fame, evitando quindi di fare frusti e stolidi conti della serva sugli sprechi del Mondo Occidentale, additati quali causa della fame nel resto del Mondo. Perché di quanto risparmiato in Europa e in America ben poco giungerebbe ai Paesi più affamati, i quali, piaccia o meno, per sviluppare le proprie capacità produttive agricole farebbero meglio a guardare alle tecnologie più evolute già messe a punto dal Primo Mondo, ovvero genetica, chimica, idraulica e meccanizzazione.
 
E che i romantici orticelli “zappa & vanga” rimangano magari un simpatico passatempo grazie al quale mangiare tutto l’anno ortaggi freschi. Perché, per dirla con la lingua di Columella e Tertulliano, “Nemo ama famem, neque cibum tardum”, nessuno ama la fame, né il cibo lento.