Obiettivo, difendere le eccellenze nazionali alimentando e proteggendo l'agricoltura che le produce. Perché l’unica strada da percorrere nel prossimo futuro sarà quella di sostenere le produzioni locali di qualità.

Dove l'abbiamo già sentita questa? Coldiretti? Slow Food? Eataly? Macché. Quanto su esposto è stato ribadito dai manager di Domino’s Pizza, una delle più grandi catene di pizzerie in fanchising del Mondo.
Il 15 ottobre scorso il Colosso statunitense ha infatti annunciato che il formaggio che verrà messo d’ora in poi sulle sue pizze sarà di origine canadese. Ciò grazie all’accordo di partnership stipulato con l’Associazione canadese degli allevatori di vacche da latte, in lingua inglese “Dairy Farmers of Canada”. Questi, secondo i super pizzaioli americani, sarebbero infatti in grado di fornire latte di altissima qualità e quindi anche il relativo formaggio. Per tali ragioni Domino acquisterà annualmente quasi cinquemila tonnellate di formaggio dal settore lattiero-caseario canadese. Evidentemente, le circa 280mila tonnellate di mozzarelle italiane non sono state reputate una risorsa degna di considerazione dai Signori della Pizza bianca, rossa e blu.

Un punto su cui sarebbe bene meditassero i soloni dell'Expo 2015, manifestazione che per la componente italiana rischia di trasformarsi in una folkloristica aggregazione di bancarelle di prodotti profumati, sia nelle fragranze, sia nei prezzi. Prodotti quindi appetibili senz'altro dai turisti tedeschi, ma ignorati da realtà come Domino's Pizza, cioè quelle che quando firmano un ordine lo fanno per qualche milione di dollari e non per qualche decina di euro.
Cosa dovrebbe attirare nel Bel Paese tali business a sei zeri? Quale dovrebbe essere la proposta commerciale alternativa dell'agroalimentare italiano, a patto di volersi qualificare come referente affaristico globale anziché piccolo mercante in fiera? E soprattutto, di quali zavorre politico-associazionistiche si dovrebbe liberare lo Stivale per affrancarsi dai molti cliché un po' pecorecci che gli sono stati spesso affibbiati?
Domanda pleonastica, la cui risposta sarà però omessa, in quanto a nessuno piace ricevere querele.
 

La parola ai protagonisti


"La decisione di Domino di utilizzare solo il formaggio prodotto con latte canadese al cento per cento, è naturale - ha infatti dichiarato Michael Curran, Presidente di Domino Pizza in Canada -Domino crede strenuamente nei prodotti locali freschi e di alta qualità ed è un fiero sostenitore dei produttori di latte canadesi". Ciò dimostra che, a dispetto di tante snobistiche pretese, concetti come “locale”, “fresco”, e “qualità” non sono esclusiva italiana.
 
"Siamo orgogliosi che Domino abbia preso questo impegno verso i nostri allevatori canadesi - ha quindi risposto Wally Smith, Presidente a sua volta dei produttori di latte del Canada – “Il Canada ha alcuni dei più grandi formaggi del mondo. E con buona ragione, dal momento che il suo ingrediente principale, il latte canadese al cento per cento, è rinomato per la sua alta qualità, la purezza e il grande gusto".
 
Basiti? Scandalizzati? Inorriditi all’idea di snobbare la mozzarella di bufala campana a favore dei formaggi filanti canadesi, ottenuti per giunta da latte di vacca?
È cosa molto dura da digerire, in effetti: dopo una pizza nostrana “bufala, friarielli & salsiccia” il risveglio alla realtà globalizzata può talvolta essere molto cinico e irriverente. E spesso non basta neanche un buon caffè per raddrizzare certe giornate, quando siano iniziate in modo pessimo. Questa è una di quelle.
 

Chi cresce e chi ciurla

 
Nata nel 1960 a Ypsilanti, Michigan, dall’idea di Tom e James Monaghan, la catena di pizzerie oggi conta 11 mila punti vendita di cui cinquemila fuori dagli Usa. Sono infatti 70 i Paesi in cui la catena di pizzaioli a stelle e strisce ha aperto punti vendita, inclusi quelli europei come Belgio, Francia, Germania, Olanda, Svizzera, Danimarca, Spagna, Polonia, Romania, Irlanda e Grecia. Manca ovviamente l’Italia, ove la pizza sarebbe magari anche nata, così, tanto per ricordarlo.
Per questa ragione, del colosso americano del pizza-business saranno forse in pochissimi a conoscerne perfino l’esistenza.
Peccato, perché se la si conoscesse si scoprirebbe che la catena americana presenta da sola un numero di punti vendita che va oltre il 40% di tutte le pizzerie italiane messe insieme, pari infatti a circa 25mila (Fonte: Italia a tavola). Con buona pace di chi, mettendosi fuori da ogni tempo e luogo, si è culturalmente e psicologicamente rinchiuso nella rinascimentale e  immaginaria Frittole, divenuta famosa grazie al film di Troisi e BenigniNon ci resta che piangere”.
Il villico frittolense vestito di sacco - che ignora che oltre Frittole vi sia il resto del Mondo - ricorda da vicino l’attuale consumatore italiano medio, al quale è stato inculcato che l’unico agrobusiness di cui valga la pena parlare sia quello dei prodotti buonissimi, rarissimi, biologicissimi, km-zerissimi e, pertanto, carissimi. Prodotti che nella mente dell’ignaro consumatore rievocano forse immagini romantiche di nerboruti contadini armati di zappe e ingoffati in ottuagenari gibunetti di velluto. Contadini i quali per nutrire e difendere le proprie colture aborrono i prodotti chimici e le soluzioni biotech, preferendo invece carezzarne amorevolmente le foglie, accompagnandone magari la crescita con pittoreschi stornelli figli di tradizioni pre-industriali.
E qui giunge il secondo, nefasto, emicranico risveglio. Perché nella testa del consumatore queste allucinazioni sono in realtà state indotte dal martellamento di gaglioffi messaggi di marketing che talvolta hanno rasentato (e spesso superato) il limite della pubblicità ingannevole.
 
In barba infatti a questa miope e deviata visione del Mondo, là fuori c’è invece un mercato agricolo globalizzato il quale, anziché indugiare su fittizi onanismi agroalimentari, ha fatto passi da gigante sia sul fronte tecnologico, sia su quello commerciale, arrivando in tal modo a lucrare perfino su ciò che di più italiano non potrebbe esservi, la pizza, escludendo proprio l’ex Bel Paese da qualsivoglia presa di benefici.

E tutto ciò continua a essere nascosto, negato, sminuito, screditato, diffamato, osteggiato da quell’insensato corporativismo clientelare italico cui proprio non aggrada l’idea di abbandonare i salotti buoni dei decisori politici, romani e non. Salotti da tempo alla deriva grazie a un inconcludente e dannoso associazionismo di settore cammuffato da autorevole riferimento tecnico-economico, soprattutto in favore di telecamera.
Il tutto a danno di un’agricoltura nazionale che annaspa sempre più, sommersa com’è da importazioni faraoniche di prodotti coltivati e trasformati in Paesi ove, a quanto pare, fanno proficuamente a meno sia di anacronistici borghi come la Frittole cinematografica, sia di fanfaluche fiabesche da boutique alimentari per pochi eletti.