Qual è il giusto rapporto alimenti e salute? Si tratta di un’equazione per la quale la salute (a livello individuale) è pari al prodotto risultante tra il mio genotipo (il mio personale patrimonio genetico) x il mio fenotipo (ciò che sono) x l’ambiente ( cioè sia il mondo che ci circonda sia la parte che chiamiamo cibo e che  introduciamo quotidianamente all’interno dell’organismo per tutta la durata della nostra vita, fornendoci energia e nutrienti necessari alla sopravvivenza). Per risolvere, almeno in parte, l’equazione occorrono evidenze scientifiche solide.
Purtroppo, realizziamo immediatamente che non è così facile. Un primo problema risiede nella stessa definizione del termine salute, da momento che siamo in grado di definire molto accuratamente un soggetto “malato“, ma oggettivamente non possiamo identificare una condizione di sanità, se non ricorrendo a una relazione al negativo (non malato) che ha ovviamente limiti semantici e operativi.

Nel rapporto dieta-salute occorre poi considerare le implicazioni del sequenziamento del genoma umano, conclusosi da più di 10 anni. La scienza ha rivelato che il nostro genoma contiene molti meno geni di quanto pensassimo e soprattutto ha evidenziato una inaspettata eterogeneicità all’interno della popolazione umana. A tutt’oggi sono stati identificate almeno 10 milioni di varianti alleliche “single nucleotide” (SNPs), moltissime delle quali hanno una significativa “penetranza” sul carattere che codificano e che sono verosimilmente la principale causa delle differenze evidenti tra individui diversi. Ed è proprio questa diversità a  determinare  le variazioni individuali nella risposta all’ambiente, ai farmaci, ad agenti tossici e, per quanto ci riguarda, alla dieta.

L’opinione pubblica ovviamente ha grosse aspettative ma, come spesso capita, ha anche una limitata capacità, o se vogliamo possibilità, di “separare il grano dal miglio”. Nel recente passato è stato possibile dimostrare che la dieta è coinvolta in modo significativo in un ampio numero di malattie e questo ha portato alla disponibilità di “cibi funzionali” ovvero a cibi “con un valore salutistico aggiunto”. Sfortunatamente sono pochissimi i prodotti per i quali è stato possibile dimostrare un robusto effetto salutistico. I più noti sono gli stannoli con effetto ipocolesterolemizzante, i probiotici e gli acidi grassi della serie “omega-3”. Il problema principale nella dimostrabilità di un effetto salutistico di un alimento (o di una molecola di derivazione alimentare o di un estratto) è probabilmente nel fatto che mentre un farmaco viene sviluppato per il trattamento di una patologia ben definita, i componenti bio-attivi nutrizionali si indirizzano alla prevenzione e all’ottimizzazione della salute, e come descritto in precedenza, non esistono indicatori affidabili per la sua definizione ed identificazione univoca.

Purtroppo, interessi di tipo principalmente commerciale (per i quali non abbiamo nessuna controindicazione preventiva) hanno portato ad una accelerazione della disponibilità sul mercato di “oggetti” con una attività benefica putativa, ma non chiaramente dimostrata, generando spesso nell’ordine, false aspettative, delusione e talvolta danni per la salute stessa. Quindi, la posizione da tenere è inevitabilmente quella di suggerire la massima cautela e l’opportunità di attendere maggiori, più solide indicazioni. La possibilità di medicalizzare l’alimentazione è lontana. E, per quanto riguarda il buon senso comune, forse non è nemmeno auspicabile.

Dobbiamo accettare un’evidenza scomoda: la nutrizione rappresenta al momento lo scenario peggiore possibile per poter avere immediatamente un'idea chiara del “cosa fare e dove farlo”. Abbiamo molte “piccole” differenze genetiche, che vengono modulate in modo differente da moltissime variabili nutrizionali, che quindi risultano in variazioni minimali del fenotipo (lo stato di salute) e che si accumulano nel tempo.
In generale, possiamo soltanto definire (potrebbe non essere poca cosa…) che esistono nutrienti, ovvero molecole di derivazione nutrizionale, indispensabili alla sopravvivenza, e molecole bioattive o potenzialmente “benefiche per la salute”. Attribuire a queste ultime le qualità di panacea (è accaduto nelle ultime decadi per esempio con la promessa mai mantenuta che “gli antiossidanti di origine nutrizionale ci avrebbero protetto da tutti i mali”) è rischioso e fuorviante. E, aggiungiamo, talvolta sembra paradossalmente giustificare stili di vita insalubri.

Per contro, la possibilità di definire i fabbisogni di nutrienti e la necessità/utilità di consumare alimenti specifici in base ad uno specifico profilo genetico è ancora molto distante. Quindi, i test genetici proposti per la generazione di diete “ad personam” appaiono assolutamente inutili, senza considerare, infine, i problemi di tipo etico/legale ancora irrisolti. Il “messaggio da portare a casa” in questo momento non può essere che cautelativo: lasciate lavorare i ricercatori perché nei prossimi anni riescano a definire meglio questo intricato groviglio di variabili complesse che chiamiamo “rapporto nutrizione-salute”.
Di Fabio Virgili, ricercatore del Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura
(struttura di ricerca: Cra-Nut)

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